moves of a seal



island

closer or always far

never near

the scene and the play

the question of being there

Percepirsi come un’isola



Riccardo Caldura




I

Quando ho ricevuto l’invito a partecipare con qualche riflessione al progetto “Island: build event”, ho pensato in un primo momento ad una garbata provocazione. Nel senso che, avendo avuto modo di conoscere a Venezia, le persone - artisti, curatori e docenti dell’università di Volos - che avevano organizzato il padiglione della Grecia in occasione dell’ultima Biennale di Architettura, sapevo del loro interesse verso le problematiche inerenti il rapporto fra i luoghi e l’interazione con le persone che li abitano. Già a Venezia avevamo avuto occasione di confrontarci sui reciproci progetti che venivamo facendo, motivo per cui li avevo invitati a fare un giro in barca per le isole minori della laguna di Venezia, interessate ad un progetto che venivo allora sviluppando con artisti e architetti del gruppo romano “Osservatorio Nomade” i quali già avevano lavorato in Grecia. Le isole veneziane minori avevano svolto in passato funzioni che molto difficilmente potevano ancora essere mantenute al giorno d’oggi. Rappresentavano dunque una sfida per chi si occupa di costruire relazioni non invasive fra luoghi, persone e funzioni. E allo stesso tempo si doveva considerare che, almeno per quel che riguarda la situazione veneziana, vi sono ora dei vincoli legati alla tutela di un ambiente naturale delicatissimo, nonché alla conservazione delle testimonianze del passato, ancora ben percepibili nelle isole. Al tempo della Serenissima la figura geografica stessa, l’isola, aveva ‘naturalmente’ trovato una propria vocazione in particolari funzioni, separate dalla società civile. Intendo: a) quella conventuale, ancor oggi attiva a San Francesco del Deserto, l’ “Isola del Deserto”, il cui motto all’ingresso del convento è “Beata solitudo, sola beatitudo”; b) quella militare, legata alla sorveglianza degli accessi alla laguna dal mare (Forte S.Andrea); c) quella sanitaria, attraverso i lazzaretti che dovevano tutelare la città dalle devastanti epidemie della peste. Le isole dunque nella loro condizione geografica riflettevano una funzionalità della separazione, trovando così il loro senso nel complesso insieme di funzioni di una antica città marittima. Ma ora non è più tempo di nemici che si presentino dal mare (l’esercito italiano ha abbandonato in modo definitivo le isole negli anni ’70), né di epidemie da controllare in luoghi isolati, e solo raramente di vocazioni conventuali. Dunque proprio al giorno d’oggi, paradossalmente, la condizione sospesa delle isole veneziane, fra funzioni esaurite, ed eventuali funzioni da reinventare, sottolinea bene la problematicità del luogo ‘deserto’ in una società densa come la nostra. Dunque tornando all’invito per partecipare ad un workshop sull’isola di Youra, nelle Sporadi settentrionali, ho pensato che proprio l’idea di isola, prima ancora della sua specifica collocazione geografica (L’Adriatico o l’Egeo), rappresentasse un problema per la cultura contemporanea, ed in particolare per coloro che si preoccupavano di immaginarne connessioni non invasive (cioè non il loro riutilizzo come porti velici, eliporti, alberghi ect) con la società odierna. Se dovessi riassumere le problematiche che emergono, potrei sintetizzarle in due concetti: quello di ‘isola’, e quello di ‘connessione’; concetti da cui sono scaturite alcune osservazioni che qui propongo. Osservazioni ‘isolate’, quasi che - come in passato la natura geografica delle isole veneziane si rifletteva nella loro dimensione funzionale -, l’immagine delle isole si riflettesse in un testo fatto di riflessioni brevi, un po’ frammentarie e dal tono anch’esso ‘discontinuo’ a seconda se l’umore con cui sbarcavo sull’ ‘isola’ era più filosofico, o letterario, o in qualche modo sociologico. Non avevo intenzione di presentare un testo compiuto (un testo ‘continentale’), e forse nemmeno avevo una qualche ‘intenzione’, dato che il concetto e l’immagine di isola, in realtà hanno sollecitato una vastissima produzione in ogni tempo, e che è perciò assai presuntuoso pretendere di dire qualcosa ancora, che non sia, di necessità, ripercorrere un ‘luogo comune’. (Ma se fosse proprio questa la traccia, la connessione possibile, cioè l’isola come ‘luogo comune’?)

II

L’attività meditativa - una sorta di basso continuo, che non cessa, un delicato e incessante macinio, un’acufenia che non risiede nell’orecchio, ma che è simile a quel mormorio che si avverte quando si appoggia l’orecchio alla cavità di una conchiglia – spinta dall’interazione di un fattore esterno, da un’occasione offertasi, inizia a girare intorno. Il periplo del pensare intorno ad un pensiero determinato, definisce un orlo sul quale si infrange l’attività incessante del pensare. Pensare ‘intorno a’ sottrae il pensare alla sua condizione fluida. Pensare e il pensiero formulato ‘intorno a’, non sono la stessa cosa. Pensare è, per così dire, il mare; intorno ad un pensiero si infrange la sua fluidità ed si evidenzia una forma: l’’isola’ del pensiero, circondata dall’azione incessante del pensare. Perché pensare, secondo Heidegger è pensare ‘la cosa’. La cosa da pensare è ciò intorno a cui non solo il pensare si concretizza, e la sua marina fluidità si evidenzia sulla solidità di una sponda, ma è anche ciò intorno cui si riuniscono gli umani per deliberare. La cosa da pensare diventa, grazie ad una vertigine etimologica (denken, Ding), il luogo pubblico (thing, in alto tedesco) del raccogliersi degli uomini. Isolandosi, il pensiero si fa luogo di raccolta, pensiero della ‘cosa’ intorno a cui discutere, deliberare, decidere: res publica, di contro a quella cosa di nessuno, inapproppriabile che è la condizione marina del pensare. La fluidità indistinta e marina del pensare è cosa di nessuno, res nullius. (Che diritti valgono per il mare? Solo sull’ ‘isola’ del pensiero possono valere dei diritti, solo intorno alla cosa pensata si può deliberare).
Qualcosa però della originaria fluidità marina del pensare, si mantiene anche per il pensiero ‘circoscritto’, ‘insulare’. Non vi è un pensiero, così come non vi è una sola ‘isola’; qualcosa della condizione plurale del pensare rimane anche nelle determinate singolarità dei pensieri. La pluralità indistinta (e priva di diritti proprietari del pensare), si riversa nella condizione plurale dei pensieri, nella loro distinzione ( le ‘isole’ nel mare del pensare), non meno che nelle singole opinioni, nei diversi e specifici punti di vista intorno alle cose da pensare. Pensare ‘intorno a’, addensa un pensiero che si moltiplica, che si pluralizza per coloro che sono presenti. Ogni pensiero che addensa la fluidità del pensare, nel suo costituirsi, evidenziarsi, ‘isolarsi’, è anche condizione affinché una con-partecipazione, Mit-teilung, sia possibile. Mit-teilung, res publica. La condizione ‘isolata’ del pensiero è il luogo della con-partecipazione e dunque riapertura ad una condizione plurale. Ma anche così restituito ad una con-partecipazione, il pensiero non è puramente e semplicemente il pensare. La differenza non è data dalla ‘pluralità’, ma dalla distinzione. Un pensiero ‘isolato’ è un pensiero distinto, il pensare senza sponde è invece un pensare ‘indistinto’, marino, vastissimo. La pluralità del pensare è priva di determinazioni, fluida, senza sponde. E’ una pluralità priva di soggetti; non si tratta della pluralità del due o dei molti, ma della pluralità dell’innumere, dell’incommensurabile. Diversa è la condizione plurale del pensiero ‘isolato’, intorno alla cui sponda rumoreggia la vastità marina. Il pensiero ‘isolato’, essendo pensiero della ‘cosa’ intorno cui ci si raccoglie e delibera, è pubblico. Nel senso che nel pensiero isolato, nella sua distinzione dal mare dell’attività incessante del pensare, è già iscritta l’altrui con-partecipazione. Solo sull’isola valgono i diritti, la proprietà, il deliberare, l’opinare: la condizione ‘plurale’ della res publica (il due e i molti). Solo l’ ‘isola’ del pensiero permette la comunità degli umani. Ma se intorno non vi si raccoglie umanità, l’ ‘isola’ del pensiero rappresenta la più aspra delle solitudini. Se non vi è nessuno intorno alla ‘cosa’ del pensiero, anche la res publica - che non è mai comunque res nullius, mare del pensare privo di distinzioni e inappropriabile – è solo un luogo deserto. Di isola in isola, di pensiero in pensiero: il mare del pensare è striato di rotte verso un’isola ancora, traguardo di Odisseo. Il suo tragitto, è tragitto verso l’isola della ‘cosa’ comune, isola del pensiero di un luogo che ci appartenga, dove valgano il diritto, la proprietà, il deliberare, l’opinare. Le isole che precedono quella ultima isola, lungo il tragitto nell’incommensurabilità del pensare marino, sono isole che non fondano comunità: isole/pensiero/solitudine: Calipso che dalla riva guarda verso il vastissimo mare.

III
Nello scambio epistolare fra Thomas Mann e Karoly Kereny , quest’ultimo nella lettera datata 1 agosto 1946 parla di “un’arcipelagica armonia di voci insulari”, e ne parla come di una potenzialità umanistica non realizzata e alla cui mancata realizzazione si devono le “divoranti solitudini di altri grandi tedeschi: Hoelderlin e Nietzsche”. E’ un ampio paesaggio quello che si apre nelle osservazioni del grande studioso ungherese della mitologia. Ma forse merita restare ancora per un momento sull’orlo di questo paesaggio, prestare attenzione alla prima riga di questa lettera, all’anno 1946, e al luogo da cui è scritta: Tegna. Kereny nella lettera del 22 febbraio dello stesso anno comunica a Mann, di essersi spostato a Tegna: “situata all’imbocco delle Centovalli nei pressi di Locarno”. Kereny è in Svizzera già da un paio di anni, Tegna, è un piccolissimo villaggio ticinese, “intorno allo studio un popolo minuto di sei persone”. Altre due figlie sono in Ungheria, e di una di esse, Grazia, ha appena ricevuto la notizia che era salva, sopravissuta al lager, e che aveva ormai raggiunto Budapest: “Ecco, è incredibile, un vero miracolo, ma Grazia è già a casa” annuncia Kereny a Mann “…in una Budapest, gravemente colpita dai disagi dell’inverno e quasi della fame”. Nella medesima lettera del 1946 Kereny ricorda che la data di stesura (8 settembre 1944) della sua prefazione alla prima parte del loro scambio epistolare, - pubblicata nel 1945 in occasione del 70.emo compleanno dello scrittore con il titolo “Romanedichtung und Mythologie”-, recava “…la data del 19° compleanno di Grazia”. A quei tempi Grazia era prigioniera nel campo di concentramento di Auschwitz”.
La figlia, continua Kereny, esplicitando la sua gioia per un fatto che ha dell’incredibile, “malata, ma con proprie energie” era arrivata a Budapest, sola, essendosi congedata dalle sue compagne ebree che furono soccorse “dalla comunità ebraica di Presburgo”, proseguendo poi per un tratto ancora con “sei zingari”. Gli zingari: “Chi non si sente spezzare il cuore al pensiero che gli zingari dovevano essere e in gran parte lo furono sterminati, mentre tante volte si parla della ‘musicalità’ dei tedeschi?” La solitudine della figlia in quel frangente del ritorno a casa, ricorda all’umanista la sua stessa solitudine. “Esiste infatti una comunità di ebrei e tedeschi, di svizzeri e messicani. C’è invece di umanisti o zingari?”
Vi è dunque una condizione se possibile ancor più dura di quella degli ebrei: “io vi scorgo qualcosa di tragicamente simbolico: la sorte di coloro che nemmeno sono ebrei”.

Non avere alcuna appartenenza, non essere nemmeno ebrei per quanto questa comunità sia stata vessata oltre ogni immaginabile; essere fuori dal proprio paese, vivendo il cosmopolitismo di uno studioso che sente di non corrispondere pienamente ad un suo compito verso la propria patria, l’Ungheria. Per questo il pensiero di Kereny riguarda la comunità di coloro che corrispondono ad un altro ordine di appartenenza. E’ un pensiero motivato da quanto era appena successo in Europa: l’inspiegabilità di quel che si è generato dal ‘musicale’ popolo tedesco è il filo teso, il tragitto fra la incommensurabilità del pensare umano, che costituisce l’importante testimonianza dell’ epistolario. Le “divoranti solitudini di grandi tedeschi” diventano così i segni premonitori che preparano alla catastrofe. Kereny, vede nell’atteggiamento di Goethe, nella sua indifferenza e incomprensione verso la res publica doctorum virorum, quell’atteggiamento “fra il demonico e l’urbano” che contraddistingue “un umanesimo di corte”, quale ne è un esempio “la felice posizione di Goethe a Weimar”.
La solitudine, l’isolamento dell’umanista, la sensazione che non si è nemmeno ebrei, sono dovuti ad una impossibile relazione, se non al prezzo del sacrificium intellectus, con il potere. L’intellettuale che prenda parte “per umanità” a favore “dei perseguitati e degli oppressi” rimane solo, e l’osservazione è acutissima, “quando i disgraziati di prima vorrebbero mutare la loro salvezza in potere”. Dunque la solidarietà per la solidarietà, l’umanesimo in sé come atteggiamento dello studioso che palesa il suo attaccamento agli uomini come condizione stessa dell’essere umanisti, si scontrano con il mutare di segno degli sventurati, i quali, scampata la sventura, riversano la loro acquisita salvezza “in potere”. Dunque l’isolamento dell’umanista (provocato da tutti coloro che governano, senza vi sia distinzione fra “capitalisti e comunisti”) è dovuto, secondo Kereny ad un’impossibile relazione con il potere. Quando questa relazione si rende invece possibile, ed è il caso della felice posizione di Goethe a Weimar, l’intellettuale non può provare, di fatto, alcuna “umanistica solidarietà”. Questa mancanza di solidarietà contraddistingue l’atteggiamento intellettuale che è, allo stesso tempo, demonico e urbano (intendendo l’insieme di buone maniere, di modi adeguati allo stare in società, l’ ‘apparenza’, la facciata di umanismo). Questa mancanza di solidarietà, esemplificata secondo Kereny dalla “riservatezza di Goethe”, è ciò che sarà fatale “per lo spirito germanico, anzi per tutta l’umanità”.

Il punto toccato da Kereny, certo non estraneo a molti intellettuali europei, è la relazione fra la repubblica degli umanisti e il potere. Non questo o quel potere, ma il potere in quanto tale, quasi vi fosse una differenza ontologica fra umanesimo, solidarietà (condizione questa che contraddistingue l’ umanista), e il potere in qualsivoglia sua forma. La catastrofe tedesca, è catastrofe che tocca il ruolo dell’intellettuale, cioè se questi possa ancora dirsi ‘umanista’. Le divoranti solitudini di grandi spiriti (Nietzsche, Hoelderlin) sono le solitudini di chi non ha trovato le condizioni (alle spalle vi è, secondo Kereny, l’ambiguità di Goethe) per una diversa soluzione dell’”influsso” che l’intellettuale può avere. Un influsso che, evidentemente, è cosa diversa dall’ impotenza: nemmeno per Kereny può essere l’impotenza la risposta dell’intellettuale al suo non aver a che fare con un soggetto “detentore del potere”. Fra il potere e l’impotenza si apre per il dotto, per l’umanista che è tale in quanto umanamente solidale, una utopistica soluzione, che non nega la singolarità del pensiero individuale, vedendone e misurandone invece la grandezza intorno al pensiero della ‘cosa’ in comune: la condizione partecipativa alla res publica. La quale non assume mai le caratteristiche esclusive del potere amministrato, ma quelle della res publica doctorum virorum: l’arcipelagica armonia di voci insulari, che costituisce la nuova condizione di appartenenza per coloro che “…non sono nemmeno ebrei”.
Nel 1959 Kereny porta con sé l’epistolario, il cui insieme si era stabilito “in modo irrevocabile fin dal 1955”, anno della scomparsa dello scrittore, ad Andros. Nell’isola greca avrebbe, al di là di ogni aspettativa, trovato conferma delle sue elaborazioni sulla figura di Ermes. Nell’isola vi venne trovata nel diciannovesimo secolo un’importante scultura del dio, e nell’isola Kereny osservava come ancora sopravvissero culti “ermetici”. Quel che qui preme osservare è come nelle “Considerazioni preliminari” alla pubblicazione della seconda parte dell’epistolario, Kereny ricordi con profonda partecipazione cosa per lui abbia rappresentato, dopo la scomparsa dello scrittore il trovare “rifugio e salvezza nel copiare le lettere…anche per la possibilità di continuare il colloquio”. Colloquio che rappresentava “…per me un’isola”. Dunque fra le voci di Kereny e Mann da luoghi distanti, (la Svizzera: Tegna, Ascona, l’esilio americano dello scrittore in California), l’isola è immagine del colloquio. Forse non è privo di significato - per una geografia europea della res publica doctorum virorum-, che Kereny abbia sentito il bisogno di portare con sé l’epistolario ad Andros. L’immagine letteraria dell’isola - rappresentazione del colloquio ‘arcipelagico’ fra intellettuali- ora è davvero un’isola concreta, “una vera isola remota” che se per un verso è il luogo specifico di una verifica delle sue ipotesi di studioso dei culti ermetici, per altro verso, Andros è anche, “un punto di partenza verso una meditazione evocatrice di quel rapporto che le lettere documentano”. Un punto di partenza, un’evocazione del colloquio fra le voci insulari: “sotto un cielo greco”.


IV
Il punto di partenza, molto più prosaicamente, per me è stato il breve viaggio in taxi da casa, all’aeroporto “Marco Polo”. Il taxista, che vedevo per la prima volta, risiede nella cittadina in provincia di Venezia dove anch’io abito da qualche anno. Sa molte cose, particolari degli edifici storici, quali erano le loro funzioni, ora venute meno, chi li occupava. Lo ascolto, è mattina presto, la giornata di inizio estate è limpida. Lo ascolto meravigliandomi un pò delle cose che sa, che io non so, perché non sono, e non mi sento, del luogo. Essere del luogo, così come chiaramente risulta dal modo di raccontare del taxista, non implica tanto una durata temporale (qualche anno, dieci, venti …) quanto un condizione non più solo biografica, ma d’esistenza: l’ essere nati lì e avervi, da sempre, risieduto. La nascita e la continuità: questo caratterizza l’essere effettivamente uno degli abitanti della cittadina in cui anch’io ora vivo. Appartenenza che si fa ancora più concreta se anche i propri genitori e prima i nonni, e ancor prima i bisnonni, e poi i nostri stessi figli sono nati e cresciuti in quel luogo. La continuità si distende nell’arco di più generazioni. Ricordo di aver sfogliato a casa di una conoscente che abitava vicino a Siegen, nella regione della Ruhr, un grosso tomo dalla copertina nera, dove erano riportate le genealogie delle famiglie tedesche. Credevo fosse un vecchio libro degli anni del nazismo per identificare chi poteva considerarsi a pieno titolo ariano. Non era così: nelle pagine dedicate al paese dove lei viveva, la genealogia includeva i suoi genitori e nell’ultima riga sotto il cognome paterno, il cognome del capofamiglia, vi era il nome di lei, nata all’inizio degli anni ’60. Non ho più avuto modo di rivedere un simile libro pur essendo stato spesso in Germania; mia moglie è tedesca, ma i suoi genitori si sono insediati in Baviera solo dopo essere fuggiti dalla allora Germania Est, tedeschi certo - mio suocero viene da un paesino fra la regione di Berlino e la Pomerania, mia suocera da Schwerin, più a nord, sul mare. Essendo fuggiti prima della costruzione del muro, avevano perduto non solo le loro case di famiglia, distribuite poi ad altri, ma anche le loro radici, il contatto con i luoghi natii. In quel paese della Baviera dove si erano insediati, fra Monaco e Augsburg, l’antica Augusta romana, erano comunque dei nuovi venuti, anche se si sono costruiti la casa, e i figli sono andati lì a scuola. Non vi è un libro che li includa. E anche la loro intonazione li tradisce, nonostante il lungo soggiorno bavarese, mia suocera parlava un tedesco privo degli arrotondamenti tipici del sud della Germania, che rendono a volte disperante per chi si è dato da fare con lo studio della lingua, riconoscervi quella precisione che la grammatica insegna. Mia suocera parlava ancora, dopo un ventennio in Oberbayern, un tedesco del Nord, dalle finali ben distinte, ben poco ‘bavarese’.

V
La lingua con cui si parla dice prima di qualsivoglia discorso a quale luogo si appartiene, il taxista parlava inequivocabilmente un dialetto tipico dell’entroterra veneziano, senza le doppie consonanti, una ruvida cantilena che distingue la parlata dialettale della campagna veneta da quella della città lagunare. Si può poetare in dialetto? Domanda retorica: ovviamente sì. Ma il poetare in dialetto significa sottolineare la propria appartenenza ad un luogo riconoscibile sia dal punto di vista geografico che amministrativo? Oppure anche la lingua più localistica, una volta poetata, condivide ai giorni nostri, un destino insulare? Biagio Marin (1891-1985) è il poeta dell’isola di Grado, nato quando ancora quella sottile striscia litoranea fra il Friuli e il Veneto era terra di lingua (ufficiale) tedesca. Un dominio asburgico rimasto tale fino alla prima guerra mondiale, dal nome molto romantico: Kustenland. Sotto l’occupazione nazista, dopo la caduta del fascismo, ricomparve sulle carte geografiche quella dicitura. Che non esprimeva più alcun romanticismo, ma l’asprezza tardiva, e fortunatamente breve, di una nuova occupazione di lingua (ufficiale) tedesca. Biagio Marin conosceva il tedesco avendo frequentato il liceo austriaco a Gorizia e poi avendo compiuto i suoi studi a Vienna. Ma non servì sotto la bandiera dell’aquila a due teste, nel primo conflitto mondiale. Disertò e si fece soldato sotto la monarchia italiana. L’appartenenza al luogo non si identificava con le forme di rappresentazione e di organizzazione civile e militare di quella che era considerata un’occupazione (amministrativa) straniera e la lingua pur studiata e amata, lingua dei poeti che molto lo influenzarono (Heine, Hoelderlin) non era la sua. Ma sua non era nemmeno la lingua dell’esercito sotto cui liberamente aveva deciso di combattere, e non era nemmeno sua la lingua di un’occupazione ancora più antica, quella dogale veneziana: la sua lingua era solo quella del luogo natio, dell’isola di Grado, sull’Adriatico, non lontano da Aquileia: un dialetto veneto-friulano di qualche centinaio di parole come aveva osservato Pier Paolo Pasolini, anch’egli di origini friulane, che considerava le poesie di Marin, fra le più alte della poesia dialettale italiana del Novecento e per questo le aveva incluse in una sua importante antologia. Poche centinaia di parole, questo il lessico di Marin, distillazione di un parlato da borgo di pescatori, con un paesaggio da borgo di pescatori, fatto di lagune, mare e cielo vastissimo, quel “mare che finisce” come lo aveva definito Gabriele D’Annunzio, chiudendosi in un ampio golfo fra Venezia e Trieste, e all’interno di quell’arco marino, l’isola di Grado cantata in migliaia di poesie dal suo poeta. Biagio Marin non si era di fatto più mosso da Grado, venuto meno nel 1985, vecchissimo, quasi cieco, ma tenacemente legato a quel suo rito dello scrivere, poesie simili fra loro come gli alberi di una foresta, così che non gli era possibile farne lui una raccolta delle migliori. A cura di Claudio Magris e con una prefazione sempre di Pier Paolo Pasolini, uscì il volume dal titolo in dialetto, molto nicciano, “La vita xe fiama” (La vita è fiamma), per una grande casa editrice nazionale (Einaudi, Torino 1970). Ma anche per chi non si è mai mosso dal luogo natio, per chi ne ha incarnato la lingua nelle sue più delicate sfumature, non vi è continuità, non vi è quella appartenenza pacata, quotidiana, e senza versi, del taxista che mi conduce verso l’aeroporto. Marin, anche se era un poeta noto nel mondo delle lettere italiane, era uomo isolato, e l’isola era la sua medesima condizione, egli come un’isola, non aveva più legami di appartenenza. Per poetare in una lingua, anche la lingua più intima, quella materna dell’isola di Grado, la lingua delle generazioni precedenti e dei vicini di casa, “Bisogna tagià le radise” ed è operazione che “fa mal, mundi mal a tagiale” . Ma solo così la lingua del luogo si trasforma in una lingua ‘insulare’ fatta di cristalli e purezze:
“Dal dolor me xe nati ‘sti cristali” .

VI
Da qualche parte vi sono delle isole beate, le glueckselige Inseln di cui parla Zarathustra. La pagina di Nietzsche è di una dolcezza estrema, quasi dolorosa. “E’ autunno tutt’intorno, e cielo chiaro e pomeriggio” . E’ il paesaggio in cui maturano i frutti tardivi dell’estate, i fichi “buoni e dolci” che cadono dagli alberi, e la pelle rossa si screpola, lasciando intravedere la polpa matura. Come il vento del nord che annuncia l’autunno e provoca la caduta dei fichi, così analogamente agirà Zarathustra lasciando cadere, quasi come fichi maturi i suoi insegnamenti sugli amici che ascoltano. Un altro vento, di nordest, in Hoelderlin annunciava la dipartita dei naviganti, e un altro albero di fichi, “ancora me ne ricordo” (Noch denket das mir wohl…), cresceva in un cortile, dove “vanno le donne nei giorni di festa” (Im Hofe aber waechest ein Feigenbaum/Am Feiertagen gehn/Die braunen Frauen daselbst…”) . In Rilke la stagione autunnale chiude la “grande estate” che come suo estremo lascito, ordina “agli ultimi frutti di colmarsi” (Befiehl den letzten Fruechten voll zu sein”) . Anche sui campi di Rilke già arsi dall’estate soffia ora il vento. Lo stesso vento che fa cadere i fichi e gli insegnamenti del saggio nelle isole beate, che gonfia le vele ai naviganti, perché è “nel mare che inizia la ricchezza” (Hoelderlin). Icone letterarie della pienezza, della ricolma maturità, della sovrabbondanza. E del distacco; è forse in Nietzsche il passaggio concettuale più esplicito: “Guardate la pienezza attorno a noi! Bello è guardare verso mari lontani, dalla sovrabbondanza. (Ueberflusse) .
Dalle isole beate si guarda verso mari lontani, verso quel mettere insieme “ricchezza della terra e guerra alata” che distingue il viaggio, verso lidi lontanissimi, dei naviganti di Hoelderlin.
Questa condizione, cioè il volgere lo sguardo verso l’infinità, al di là dell’orlo finito di una terra, una volta si sarebbe detto “Dio”, e Zarathustra ha però insegnato a dire: “Uebermensch”.
Quel che stupisce è questa relazione fra la sovrabbondanza (Ueberfluss) e la nuova dimensione dell’umano annunciata da Zarathustra: Uebermensch. E il loro connettersi in un’immagine delle isole. Che ci si diparta (sempre) dalle isole, ‘a causa’ della loro ricolma e perfetta condizione? Oppure al contrario, pensando a quella nostra nave, che si è staccata dalla riva di Volos, è dalla pienezza ‘continentale’ che si volge di nuovo lo sguardo verso le isole, e le isole dove non vi è nulla, se non il vento, il mare, qualche animale raro. E il nostro tendere nuovamente, dalla densità continentale verso la rarefazione ‘insulare’ è manifestazione ‘sovraumana’? In quanto figli della tecnica siamo noi che, al di là di qualsivoglia nostra ‘umanistica’ intenzione non possiamo che incarnare, direi come un destino, la condizione della ‘sovraumanità’? Ho scritto qualche nota durante la traversata da Volos all’isola di Youra.

VII
Maggio 2005
“Escursione attraverso le Sporadi, la barca permette il riunirsi, e dunque primo concreto scambio di ipotesi sul da farsi, o meglio sul da pensare. Alcuni studenti della facoltà di architettura si siedono intorno. Ho parlato di ‘forzatura’ che mi pare sia iscritta nel riflettere su di un progetto che riguarda un’isola deserta. Forse non vi è alcun pensiero da esprimere, se non l’accettazione di quel che Youra è effettivamente: un’isola soggetta a misure protezionistiche, misure restrittive essendo presenti nel suo areale due specie molto rare (la foca monaca, ed esemplari di una capra, il cri-cri). Youra fa parte dunque di un parco naturale marino. Il che risolve la questione intorno a quel che essa è, cioè quale sia la sua identità amministrativa, non meno che la sua funzione nel mondo contemporaneo. Fra il nostro essere intorno a questo tavolo e l’identità amministrativa dell’isola vi è un ‘vuoto’ da riempire. Le condizioni di partenza costituiscono dei limiti, solo oltrepassando i quali possiamo, forse, riempire quel ‘vuoto’. Così si cerca, come questa nave fra le isole e la costa, un sentiero equidistante fra le condizioni date. Un’isola deserta, una funzione amministrativa contemporanea. Quel che mi pare fruttifero è l’idea di forzatura di questi limiti.

Che spazio si apre fra l’ottusità di roccia e la legislazione vigente?

L’isola non è ‘deserta’. In realtà è un microcosmo di linguaggi visivi. Come se quella complessità che De Certeau vede nel dire comune, potesse essere riscontrata anche nel fare comune, che è sempre un fare inerente al ‘prendere luogo’. (Osservo una giovane che sposta pietre; intorno a lei solo cespugli, sassi e rocce che affiorano dal terreno; riordina le pietre, le risistema. Occupa così un po’ di tempo e un po’ di spazio).

Prendere luogo determina la discontinuità rispetto all’intorno. Prendere luogo come un ‘nominare’ la propria presenza.

La rete di recinzione che circonda qualche piccolo edificio; la rete di recinzione (archetipo di tutte le cornici), la funzione ornamentale e apotropaica delle teste di capra posizionate agli ingressi. All’interno del recinto: la piccola chiesa, la casa del custode, l’orto (il giardino coltivato), l’uva, le piante di fico, qualche fiore sulle piccole aiuole, il pennone con la bandiera greca. Funzioni intersecate strettamente da aspetti simbolici. Un lavoro possibile sulle strutture primarie (funzionali/simboliche) del prendere luogo?
( E i pannelli solari che compaiono su qualche tetto?)”

Ho seguito il gruppo nella sua esplorazione sull’isola, esplorazione limitata comunque alle aree raggiungibili attraverso piccoli sentieri usati solitamente dai custodi che si alternano periodicamente, senza comunque permanere in modo stabile sull’isola. Poco prima di ritornare alla barca ancorata vicino alla sponda rocciosa, mi sono allontanato dal gruppo, per alcuni minuti. Mi sono seduto su un masso dinnanzi al mare; non sapendo, l’ho saputo più tardi, che quella altura azzurrina che scorgevo appena all’orizzonte, era Monte Athos. Ho scritto qualche nota su foglietti, scontrini di cassa, che accumulo, per ogni evenienza, nel portamonete. Riporto anche queste ultime note scarabocchiate allora.

“Separazione? Isola deserta? Solo un pacato silenzio, che poi tale non è perché sento il vento – lieve, a brevi raffiche discontinue – sento il frangersi delle onde, ma senza alcuna violenza. Si tratta piuttosto di un mormorio vastissimo. E l’odore delle piante selvatiche. Non è vero che la natura non mi dice niente. Oppure, è vero: non mi dice niente. Non so bene come descrivere questa vastissima esistenza. Il sole scalda le rocce, le piante, me stesso. Non si trattiene nulla, o almeno non come qualcosa da portare via”.

“ Una pienezza che stordisce, che ubriaca. Inseguirla con le parole significa ubriacarsi ancora di più. E perdere questa condizione dello stare…Vi sono altri stati d’esistenza oltre la parola. Sì, ‘qui e ora’. Ma è poco il dire, quel che posso dire, rispetto al vastissimo che ho dinnanzi e intorno”.